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Cinzia Arioli al tiro | Foto Luigi Canu

Basket | Arioli: “La Sardegna è stata casa. Il trucco di Restivo? La competenza”

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Sedici anni in Sardegna, tre maglie differenti, quattro contando quella della Nazionale a cui era arrivata proprio calcando i parquet isolani. Cinzia Arioli ha da poco annunciato l’addio alla pallacanestro giocata. La guardia lombarda ha lasciato il segno nella palla a spicchi tutta sarda, diventandone un simbolo per le sfide accettate e per i traguardi tagliati. Dopo l’ultimo anno vicino casa, a Canegrate, è arrivata la scelta mai facile per chi ha vissuto in simbiosi con un pallone tra le mani. Abbiamo parlato con Arioli di questo momento, del passato e del futuro.

Cinzia Arioli, è stato un lungo viaggio. Com’è stato prendere questa scelta?

“È una decisione è sempre difficile da prendere. Però l’ho presa in totale serenità. Ci sono arrivata piano piano, sapevo che era un anno di transizione dove tornando a casa iniziavo anche una nuova vita lavorativa da cui sono appagata, è stata una normale chiusura. Con Canegrate abbiamo fatto comunque bene, abbiamo provato ad arrivare sino in fondo poi abbiamo incontrato Torino che ha fatto un mercato di livello per centrare la promozione. Non potevo chiedere di meglio per chiudere, mi sarebbe dispiaciuto terminare con l’infortunio. Ho avuto delle compagne splendide, non mi hanno mai fatto mancare un sorriso, è stato un modo di vivere la pallacanestro in modo differente perché non si trattava di professionismo. Ero partita un pochino titubante perché venivo da un altro mondo, ma alla fine sono stata felice della scelta fatta”.

Qual è la parola che potrebbe racchiudere questa parte di vita?

“La parola giusta penso sia entusiasmo. Non è mai mancato, altrimenti non sarebbe durato così tanto. Entusiasmo e passione mi hanno accompagnato sempre. Ci sono stati momenti difficili in generale, in cui ho pensato “Perché lo sto facendo? Ne vale la pena?”. Però l’entusiasmo arrivava a bussare alla porta ogni volta che prendevo la palla in mano. Se devo trovare una parola, è questa”.

Cus Cagliari, San Salvatore Selargius, Dinamo Sassari. Tre maglie importanti, tre parti della carriera importanti. Cos’è stata la Sardegna per lei?

“La Sardegna è stata casa. Se devo pensare alla mia pallacanestro la testa va lì. Sono state importanti anche altre stagioni come Chieti, come Viterbo dove ho giocato la prima partita in Serie A. Ogni stagione ha la sua importanza, ma passare 16 anni della mia carriera in Sardegna penso spieghi tutto più di ogni altra cosa”.

Guardando agli anni sull’Isola quali sono le emozioni più forti che tornano subito in mente?

“Al Cus il ricordo più nitido è quello della finale di A2 con Alcamo per giocarci la promozione. Allora dai due gironi veniva promossa solo una squadra. Avevamo vinto il nostro girone, poi avevamo perso l’ultimo atto, ma l’emozione di vedere il PalaCus strapieno è stata forte. Quelli sono momenti che mi porto dentro, così come le mie compagne e i dirigenti dell’epoca a partire da Marcello Vasapollo. Poi mi viene in mente la salvezza nel primo anno con la maglia della Dinamo. Quello è stato un traguardo valso come una promozione. Nessuno avrebbe scommesso un centesimo tranne noi. Sapevamo di dover arrivare fino all’ultima partita per giocarci tutto e di dovercela sudare e così è stato. Aggiungo la vittoria in Eurocup a Londra, anche se l’anno passato avevo un ruolo differente in squadra. Siamo partite da zero e siamo arrivate fino all’Europa”.

Il filo che unisce tutte le esperienze è coach Antonello Restivo.

“Ci siamo incontrati quando lui era allenatore dell’Olimpia e io ero al Cus. Ci capitava di fare le telecronache della Dinamo e già lì si era creato un bel feeling perché vedevamo la pallacanestro nello stesso modo. È stato facile riportare quell’intesa sul parquet ed è per questo che è il tragitto insieme è durato così tanto. È un rapporto che rimarrà, ci sentiamo spesso ancora oggi. Il suo trucco? Al di là del rapporto umano, c’è tanta competenza. Riesce sempre a far rendere le giocatrici per come meglio possono”.

Negli ultimi anni la pallacanestro femminile appare in forte ascesa. Com’è cambiata la pallacanestro in questi anni?

“Sicuramente è diventata molto più fisica. Non un problema in sé, ma bisognerebbe un po’ pulire il gioco, perché a soffrirne di più è la spettacolarità del nostro sport. Con una fisicità così accentuata a risentirne sono le giocatrici più tecniche. Se posso fare un invito per il futuro è proprio quello di cercare di pulire il gioco. Dare più rilievo al gesto tecnico che alle botte. Va ammesso ci sia stata comunque una crescita mentale: quando ho iniziato a fare i pesi era visto come qualcosa di assurdo, ci si preoccupava del diventare troppo grosse. Anche l’atleta donna ha imparato a curare in una certa maniera il proprio corpo, anche se questo non vuol dire che il parquet debba diventare un ring”.

E ora cosa sarà del basket nella sua vita?

“La pallacanestro in questo momento non è in primo piano. Ho qualcosa in ballo, lo ammetto, ma devo ancora valutare se prendermi un po’ di pausa e se potrò contare ancora su quell’entusiasmo che mi ha spinto avanti negli anni”.

Matteo Cardia

TAG:  Basket
 
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