Una definizione perfetta l’ha data il giornalista Giuseppe Pastore dopo la sconfitta dello scorso dicembre contro il Venezia per 2-1 al Penzo. “Penitenziale“, associata all’allenatore rossoblù Davide Nicola e a quel suo esaltarsi nella sofferenza, quasi cercandola più che trovandola sulla sua strada. Il dover o forse addirittura voler andare a caccia delle difficoltà, unico mezzo per tirare fuori le proprie qualità fatte di lotta e abnegazione. Come in un famoso meme, togliere il bastone tra le ruote della bicicletta non finito per caso tra i raggi, ma preso con le proprie mani e inserito per poter surrealmente dire che sì, anche questa volta siamo andati oltre le nostre possibilità. Contro tutto, contro tutti, contro soprattutto noi stessi.
Storia
Penitenziale Nicola, penitenziale il Cagliari come società. Un connubio che appare perfetto quello tra un allenatore che per storia personale è stato capace di imprese epiche, di tirare fuori la testa dalle acque agitate per arrivare a riva con l’ultima, decisiva bracciata. E un club che, ciclicamente, riesce a ricadere negli stessi errori, che non appena il tempo volge al sereno soffia sulle nuvole distanti per riportarle sopra la propria testa. Non serve andare a spulciare almanacchi o siti specializzati, basta andare a memoria tante sono le volte in cui i rossoblù, nella storia recente della Serie A, hanno quasi deciso di abbracciare negatività e problemi, come una coperta di Linus al contrario. Non coccolata per sentirsi al sicuro, tutt’altro, presa tra le mani per sentire il profumo dell’errore, l’adrenalina dell’ultima spiaggia. In ordine sparso, includendo anche l’ultimo campionato cadetto con Claudio Ranieri in panchina, il gol di Leonardo Pavoletti al 94′ nella finale di Bari, con un nubifragio biblico ad aggiungere epicità teatrale al dramma sportivo dietro l’angolo. La salvezza successiva, alti e bassi – tanti bassi – e la necessità di dimissioni fatte rientrare dalla squadra. L’elettroshock di Sir Claudio che dà la scossa e porta fino alla vittoria di Sassuolo, non prima di una gara casalinga contro il Lecce da vincere e puntualmente pareggiata con tanto di espulsione in mezzo e gol subito nel finale. Ancora prima la retrocessione e Walter Mazzarri, licenziamento e non esonero, dopo che una vittoria casalinga contro il Sassuolo sembrava aver messo al riparo da sorprese. E invece no, perché poi arrivano sconfitte, alcune incredibili per prestazione come quella contro il Verona in casa – casus belli dell’addio del tecnico toscano a tre turni dalla fine – e poi il pareggio all’ultimo a Salerno e, infine, lo 0-0 di Venezia per chiudere il cerchio dell’incubo. E che dire della salvezza con Leonardo Semplici in panchina, il baratro toccato con i piedi e poi la spinta che porta la risalita, un cliché. O il sogno europeo spento con un girone di ritorno pessimo con Rolando Maran in panchina fino all’esonero e Walter Zenga al suo posto. Come un Icaro sbagliato, il sole troppo vicino per chi è abituato alle tenebre sportive, ali di cera che non permettono di volare alto e inevitabilmente portano alla caduta rovinosa. E ancora e ancora, inutile snocciolare dati che sono dentro la memoria, tanto cristallizzati e con così tanta abitudine nel leggerli di anno in anno che diventa pleonastico ripeterli.
Carboni ardenti
C’è un filo rosso che lega il Cagliari al suo allenatore attuale. Quello dell’essere penitenziali, camminare sui carboni ardenti ché solo con i piedi che bruciano si può correre verso l’obiettivo. D’altronde Nicola è maestro di salvezze clamorose, l’ultima quella sulla panchina dell‘Empoli all’ultimo minuto dell’ultima giornata. Ancora prima quella con la Salernitana – notte di Venezia per il Cagliari, proprio quella – con una classifica deficitaria che comunque basta e addirittura avanza per restare in Serie A. E come dimenticare la cavalcata di Crotone, una salvezza ottenuta grazie a 20 (venti!) punti tra aprile e maggio quando ormai i calabresi avevano praticamente entrambi i piedi in Serie B. In mezzo la salvezza di Genova da subentrante al posto di Thiago Motta, quindi quella sulla panchina del Torino e un filo conduttore che lo vede tirare fuori il meglio arrivando in corsa, salvo poi o non restare o fallire nella stagione successiva partendo dall’inizio. L’occasione di Cagliari perfetta per togliersi l’etichetta di uomo dei miracoli: tutto deve passare dal duro lavoro, dall’abnegazione, dalla sofferenza, appunto. Eppure, non saltuariamente ma piuttosto con una discreta continuità, i rossoblù quest’anno hanno giocato un calcio spesso piacevole, con un’idea di fondo che non si è limitata alla corsa e alla battaglia. Sempre finché non si è usciti dalle sabbie mobili, una sorta di segnale che quasi come obbligo morale ha imposto il passo indietro. Sia nei risultati che tecnico-tattico. La vittoria contro il Parma l’ultima svolta dalla serentità al tornare penitenziali. Via il trequartista, centrocampo muscolare a Bergamo e contro la Juventus, un po’ come accaduto a Venezia dopo buone prestazioni contro Verona, Fiorentina e Atalanta: bisogna lottare, non abbassare la guardia, cercare la sofferenza anche attraverso la scelta di chi è in grado di soffrire, un cane che si morde la coda, un circolo vizioso tutto del Cagliari e del suo allenatore, causa e conseguenza l’uno dell’altro. E quando si rinuncia al terzo mediano (Deiola) come a Bologna non arriva un giocatore più offensivo, ma la scelta di un doppio terzino sulla sinistra e l’attesa degli ultimi minuti per l’assalto all’arma bianca senza risultati concreti. I rossoblù non tirano, non creano, aspettano il proprio destino, vogliono tuffarsi nel ben noto delle difficoltà per trovare la armi lasciate sul fondo del mare e rimettere la testa fuori dall’acqua manifestando orgoglio. In tutto questo anche la società non vuole essere da meno. Un punto in tre partite sulla carta anche da zero, ché Bergamo e Bologna più Juventus in casa non sono certo una passeggiata di salute. Prestazioni magari non eccelse se non a tratti – Atalanta esclusa, per quanto senza spazio all’arte – eppure si è visto di peggio nelle ultime stagioni, per usare un eufemismo. Il club, penitenziale anch’esso, si affida così alla classica arma rossoblù ormai nota da anni e senza che siano arrivati chissà quali risultati. Un’arma se si vuole anacronistica. Il ritiro, imposto, mediato, punitivo, penitenziale anche per i giocatori. Uscire tutti insieme sì, ma sempre e solo attraverso la sofferenza. Un domani, chissà, Cagliari e il Cagliari potranno ambire alla tranquillità di un progetto che sia nel nome della serenità. Oggi no, questa stagione nemmeno, non è ancora il momento. Con la sensazione che questa volta, più di ogni altra, l’essere penitenziale sia una pratica condivisa. E non se ne sentiva affatto il bisogno.
Matteo Zizola