Una serie di “quadretti” di calciatori del passato cagliaritano e non solo, a cura di Nino Nonnis.
Il nome si scopre alla fine.
Campo di Calamosca. “Posso fare due tiri?”. Era da solo, aveva già le scarpette ai piedi, una calza diversa dall’altra, piccoletto, tarchiato, anche il viso era tarchiato. Sardo autentico. “Gioca con loro, che sono uno in meno”. Si sistemò un po’ indietro, davanti alla difesa. All’occorrenza andava a coprire sulle fasce. “Meno male, non è di quei mandroni che non tirano neanche i falli laterali”. Appena gli arrivava la palla la passava rasoterra di prima, al compagno più vicino, che non era abituato a quella immediatezza e si faceva trovare sempre impreparato. Non entrava sull’avversario, si limitava ad aspettarlo e seguirne le mosse, correndo all’indietro con naturalezza. Si muoveva al piccolo trotto, come dicono quelli che non parlano di cavalli, di testa non andava a saltare. “Con quel fisico dove vuoi che vada?”. Tirava bene i falli laterali, non portava il tackle. “Deve avere avuto qualche sbruncata”. Non dava gannedde. “Gi timi pagu!”.
Dopo una ventina di minuti di questa cantilena, intercettò una palla vagante a centrocampo, la stoppò dando l’impressione che la palla si fosse stoppata da sola, per forza di gravità, dribblò Bastiano Fessia che ringhiava furente intorno a tutti, se ne trovò subito un altro addosso e lo scartò, come fa un torero, per necessità. Si mise a correre coordinato e sereno, come in un allenamento coi birilli umani. Io mi ero fermato sul posto, cosa che facevo molto bene, a guardare, non sono uno che scommette, altrimenti avrei perso un sacco di soldi in quell’occasione. Dopo che ebbe scartato tutti gli avversari giusto perché si erano fatti sotto, ad uno ad uno, come nei film cinesi di arti marziali, segnò a porta vuota, mentre il portiere si rialzava da terra incredulo. Il tarchiato sardo si controllò una scarpetta, era integra coi lacci a posto, e si tirò su la calza, quella verde a strisce. Gigi Camedda gli si avvicinò come uno si avvicina a un’astronave atterrata da poco in una zona senza vigili urbani “Ma chi sei?” – “Chicco Piras”.
Se non avesse fatto quell’azione travolgente alla moviola, quasi con intenti didattici, i miei compagni non avrebbero mai capito quanto sapeva giocare a pallone quel tipo che aveva due cosce che lo costringevano a comprarsi abiti spezzati, per problemi di taglia. Avrebbe potuto fare una ben più luminosa carriera, viene citato nei rimpianti di tutti quelli che l’hanno conosciuto. È andato a giocare nella Nuorese, che a quei tempi era un’ottima squadra, e da lì non si è più mosso. Si trovava bene, sport, cene, amici e clima. Un giorno lo presentai a mio figlio, in un ristorante di Calamosca dove faceva il cassiere, grazie a un amico. “Federico, lo vedi questo signore? È stato uno dei più grandi calciatori sardi”. Lui fece un sorriso umile, quasi a voler sminuire la mia presentazione. Mio figlio dopo mi chiese “Ma chi? Quello lì?”. Aveva ragione, io mi stupisco ancora adesso.
Nino Nonnis