Da Ozieri ai giochi a cinque cerchi di Londra e Rio de Janeiro. Abbiamo avuto il piacere di fare due chiacchiere con Luigi Lodde, atleta di tiro a volo specializzato nella disciplina dello skeet, ora diventato nuovo direttore tecnico della nazionale italiana. Nel corso della nostra intervista, ci ha raccontato il suo straordinario percorso sportivo, che lo ha visto partecipare alle Olimpiadi di Londra e Rio, oltre a conquistare due titoli europei nel 2014 e nel 2015. Fino a giungere al 2025, anno in cui è stato nominato direttore tecnico della Nazionale italiana di tiro a volo skeet.
Luigi, iniziamo l’intervista chiedendole com’è nato il suo amore per il tiro a volo e cosa l’ha spinta a scegliere proprio questo sport?
“La mia passione è nata grazie a mio padre, che era un grande appassionato di caccia e vita all’aria aperta. È stato lui a introdurmi al tiro a volo: fin da piccolo mi portava con sé nei campi in Sardegna, e così ho iniziato ad appassionarmi. Avevo circa 8-10 anni quando ho iniziato a sparare, e con il tempo mi sono reso conto di essere abbastanza portato. Così ho iniziato a praticare seriamente, divertendomi e partecipando alle gare in giro per l’Italia. Dopo un percorso di crescita, sono entrato a far parte della Nazionale Junior, conquistando due medaglie ai Campionati Europei e vincendo due volte il titolo italiano. Successivamente, ho attraversato un periodo di maturazione in cui non riuscivo a esprimermi al meglio, un momento che è coinciso con la laurea in Scienze Biologiche, che ho conseguito a 26 anni. In seguito, ho cambiato approccio al tiro, ho lavorato con un nuovo tecnico e modificato diversi aspetti della mia preparazione. Grazie a questi cambiamenti, mi sono qualificato per le Olimpiadi di Londra e sono entrato nel Gruppo Sportivo dell’Esercito, dove sono rimasto fino a gennaio di quest’anno”.
Quali sono stati i motivi che l’hanno spinta a scegliere la specialità dello skeet rispetto al trap? Quali ritiene siano le principali differenze tecniche tra queste due discipline del tiro a volo?
“Ho scelto di gareggiare nello skeet anche perché mio padre era un grande appassionato di questa disciplina. Quando ho iniziato, c’erano già grandi campioni come Ennio Falco e Andrea Benelli, che vincevano le gare, e atleti del calibro di Luca Scribani Rossi, che hanno fatto la storia del nostro sport. La differenza sostanziale tra trap e skeet è che nel trap si parte imbracciato e si sparano piattelli un po’ più lontani, che si allontanano dalla pedana. Nello skeet, invece, si sparano sempre gli stessi piattelli e il percorso da affrontare è ben preciso: lo schema è definito. Nel trap, invece, si sa da dove esce il piattello, ma la direzione è imprevedibile, quindi è un po’ più casuale. Per questo motivo, all’inizio è sicuramente più facile iniziare con il trap dal punto di vista tecnico, perché si parte già con il fucile imbracciato. Nello skeet, invece, si parte con il fucile sbracciato, in posizione di attesa, e si può muovere solo quando si vede il piattello. Perciò, dal punto di vista tecnico, lo skeet è sicuramente più difficile per un principiante. Poi, man mano che si acquisisce esperienza e si raggiungono livelli più alti, entrambe le discipline diventano molto difficili. Probabilmente, il trap è più complicato dal punto di vista mentale, perché reggere mentalmente una serie di trap è più impegnativo. Nello skeet, infatti, si sparano 2-3 piattelli, a volte anche 4, per ogni pedana, mentre nel trap si spara sempre un singolo piattello. Inoltre, nel trap, durante le qualificazioni, è possibile fare due colpi per ogni piattello, mentre nello skeet si può sparare un solo colpo per piattello. Le difficoltà sono diverse, ma entrambe le discipline sono estremamente complesse, soprattutto a livelli avanzati”.
Ha partecipato a due Olimpiadi (Londra 2012 e Rio 2016). Quali sono i ricordi più belli e quali le sfide più difficili di queste esperienze?
“Londra è stata un’emozione unica, perché tutto è successo molto in fretta. La mia carriera ha avuto una crescita verticale e una maturazione rapidissima in quel periodo. Fino al 2010 ero ai margini della squadra, poi all’improvviso ho vinto una medaglia di bronzo in Coppa del Mondo a Pechino. Da lì sono arrivate altre occasioni che sono stato bravo a sfruttare. Nel 2011 ho vinto il titolo italiano e, pur avendo fatto molte buone gare, ho avuto solo un’opportunità per qualificarmi alle Olimpiadi: in Australia. L’ho colta al volo e mi sono qualificato per Londra 2012. Da quel momento è stato tutto nuovo: il villaggio olimpico, attraversare Londra sul pullman degli atleti, arrivare al campo di gara e allenarsi lì. Sono state emozioni indimenticabili. Alla fine, sono arrivato quinto in finale, sfiorando la medaglia per un solo piattello, ma è stata comunque una prestazione importante.
Rio, invece, è stata un’esperienza diversa. Avevo più consapevolezza di me stesso e delle mie capacità. Se a Londra ero considerato un outsider, questa volta sapevo cosa potevo fare. Tuttavia, la mia qualificazione non è stata lineare. Nonostante avessi ottenuto ottimi risultati, con due titoli europei nel 2014 e nel 2015, l’allenatore aveva deciso di convocare un altro tiratore per le Olimpiadi. A quel punto avevo perso fiducia, ma inaspettatamente il collega convocato al mio posto (Valerio Luchini n.d.r) si è ritirato e sono stato convocato io all’ultimo momento. È stato un continuo rincorrere me stesso, cercando di convincermi che meritavo di essere lì, nonostante non fossi stata la prima scelta. Sicuramente questa situazione non mi ha aiutato: probabilmente non sono stato bravo a gestirla al meglio. Avrei dovuto pensare più a me stesso, senza farmi influenzare dall’ambiente e dalle decisioni dell’allenatore. Con il senno di poi è facile dirlo, ma magari sarebbe andata male lo stesso. Di sicuro, così non è andata bene. Un mese prima avevo dimostrato di essere in gran forma, facendo 124 su 125 in un Europeo, eppure, una volta arrivato a Rio, non sono riuscito a reggere la pressione. Per quanto fossi preparato e tirassi bene, la gara è sfumata subito. È stato un duro colpo, ma anche un’esperienza di vita importante”.

Ha vinto i Campionati Europei nel 2014 e nel 2015. Cosa significano per lei questi successi?
“Nel 2013 sono arrivato secondo a Suhl, in Germania, anche in quella occasione un po’ da outsider. Il mio primo successo importante, però, è arrivato in Ungheria, a Sarlospuszta, nel 2014, seguito dal secondo titolo vinto a Maribor, in Slovenia, nel 2015. Il primo titolo vinto è stato il risultato di un grande lavoro individuale che avevo fatto su me stesso. È stato probabilmente il coronamento di un periodo di preparazione estremamente intenso, che era iniziato nel 2012 e si è protratto fino al 2013. In quel periodo mi ero affinato tecnicamente, avevo fatto un grande lavoro con il mio psicologo Manolo Cattari, con la federazione e con il mio allenatore Benelli. Avevo investito molto tempo ed energie per migliorare, e credevo fermamente in quello che stavo facendo. Anche se il lavoro svolto era stato notevole, ero consapevole che vincere fosse una sfida diversa. L’anno precedente, infatti, ero arrivato secondo, perdendo lo scontro diretto in finale per un piattello che, purtroppo, non ero riuscito a centrare. Era un piattello particolarmente difficile, ma comunque una situazione che poteva capitare. Il 2014, quindi, è stato l’anno in cui è arrivato il primo vero grande successo. Dopo un anno di duro lavoro, sono riuscito a conquistare il titolo a Sarlospuszta, e da lì ho proseguito con il mio cammino. Nel 2015, poi, è arrivata la vittoria a Maribor, che ha consolidato ulteriormente il mio percorso di crescita. Oltre a questi successi, nel 2013 avevo già ottenuto ottimi risultati, come la vittoria in una prova di Coppa del Mondo negli Stati Uniti, dove ho stabilito il record del mondo con 124 su 125 e il titolo italiano, conquistato nuovamente: è stato un anno straordinario”.
Quanto è stata importante la figura di Andrea Benelli nel suo percorso sportivo e nella sua crescita personale?
“All’inizio è stato determinante, perché mi ha fatto comprendere veramente quanto valessi. Inoltre, alcune correzioni tecniche, come quelle sul calcio del fucile, mi hanno aiutato tantissimo. Tuttavia, ciò che ha davvero cambiato il mio modo di affrontare le gare e le preparazioni è stata la consapevolezza di quanto potessi valere. Questo è stato sicuramente il punto di svolta. Poi, pian piano, tra frizioni e incomprensioni, ma anche scelte tecniche che non sempre sono andate nella mia direzione, ho imparato a spingermi oltre, ponendomi sempre in maniera critica per cercare di migliorarmi. In questo, sono stati fondamentali il mio compagno di squadra Ennio Falco, che mi ha supportato fino a Londra 2012, e Chiara Cainero, che mi ha aiutato tantissimo nella fase di crescita tra il 2010 e il 2012. Lei mi ha letteralmente preso per le orecchie e mi ha portato in giro per l’Italia ad allenarmi, insieme a lei e ad altri tecnici, offrendomi un grande supporto. Da lì ho capito che dovevo lavorare molto di più su me stesso e sul mio gruppo di lavoro. Per questo, sono stati davvero preziosi”.
Durante la sua carriera, con quali atleti ha legato maggiormente?
“In realtà ho sempre avuto facilità nel creare legami, essendo una persona molto socievole. Nel corso degli anni ho instaurato un buon rapporto con tutti i miei compagni, condividendo momenti di crescita. A suo tempo con Andrea Benelli, Ennio Falco, Pietro Genga, Chiara Cainero, Diana Bacosi, Gabriele Rossetti e Tammaro Cassandro. Ho legato con tutti, inclusi Giancarlo Tazza, Marco Sablone e, tra i più giovani, Elia Sdruccioli ed Erik Pittini. Ho avuto la fortuna di conoscere davvero molte persone e, con il tempo, ho compreso che chiudersi in sé stessi o cercare di isolarsi non porta alcun beneficio. Per come sono fatto io, il confronto è sempre una preziosa opportunità di crescita”.
Dopo tanti anni da atleta, è appena stato nominato Direttore Tecnico della Nazionale Italiana, succedendo ad Andrea Benelli. Quali emozioni ha provato nel ricevere questo prestigioso incarico?
“All’inizio è nato quasi per gioco, un’idea buttata lì senza troppe aspettative. Poi, pian piano, ha preso forma fino a diventare realtà. Mi sento davvero molto fortunato per questa opportunità e non smetterò mai di ringraziare la federazione per la fiducia che ha riposto in me. Sono l’unico ad essere passato direttamente da atleta a tecnico, un ruolo di grande responsabilità. Sto lavorando con impegno per farmi trovare pronto ai primi appuntamenti. Non sarà facile, perché Benelli ha svolto un lavoro straordinario: ha vinto tantissime gare e ha conquistato medaglie olimpiche in tre edizioni diverse. Il suo contributo è stato incredibile e il confronto con un’eredità così importante rende la sfida ancora più stimolante. L’entusiasmo di certo non manca, ma devo ancora approfondire gli aspetti legati alla gestione della squadra e all’organizzazione logistica. Coordinare appuntamenti, valutazioni e la composizione delle squadre richiede esperienza e precisione. Per fortuna, posso contare sul supporto della federazione, dello staff, dello stesso Benelli, con cui mi confronto spesso, e della mia compagna, che mi aiuta soprattutto dal punto di vista tecnologico”.
Da neodirettore tecnico, come valuta il percorso che porterà la Nazionale alle Olimpiadi di Los Angeles 2028?
“Sarà un percorso molto impegnativo, anche perché il regolamento per la qualificazione olimpica continua a cambiare. Nell’ultima tornata olimpica, quella di Parigi 2024, abbiamo affrontato alcune difficoltà sotto questo aspetto. La prima carta olimpica l’ho conquistata ai Campionati Europei di Cipro, arrivando secondo. I miei compagni di squadra, nonostante fossero fortissimi, non sono riusciti a ottenere il secondo pass fino all’ultima gara, quando è arrivato grazie al ranking. Questo dimostra quanto sia difficile qualificarsi e, per Los Angeles 2028, lo sarà ancora di più. Al momento sto aspettando la definizione ufficiale delle regole di qualificazione olimpica e, una volta chiarite, programmerò attentamente il percorso insieme agli atleti e alla federazione. L’obiettivo sarà partire con il piede giusto per dare fiducia a me stesso e alla squadra in questo nuovo cammino. Sarà fondamentale monitorare costantemente i progressi, correggere eventuali errori e migliorarci sempre di più lungo il percorso”.
Qual è lo stato di salute del tiro a volo in Sardegna? Ci sono dei giovani che possono fare bene?
“Lo stato del tiro a volo in Sardegna, purtroppo, presenta numeri piuttosto risicati. Quando praticavo intensamente tra il 1996 e il 2006, i numeri erano decisamente più alti nei campi regionali. Tuttavia, in quel periodo vivevamo una stabilità economica maggiore rispetto ad oggi. Ora, praticare il tiro a volo è davvero complicato, visto che i costi sono altissimi, così come sono aumentati i costi della vita e del chilo di piombo. Nonostante ciò, il movimento in Sardegna è davvero florido. Io sono l’ultima espressione di questo movimento, che parte proprio da qui. Vivo e mi confronto con la mia realtà locale, che mi ha permesso di raggiungere i successi più importanti. Questa è la base, e per questo sono orgoglioso di essere anche il Direttore Tecnico della Nazionale, rappresentando la Sardegna. Nella nostra regione, inoltre, abbiamo un delegato regionale molto valido, Federica Riu, e un gruppo di tecnici altamente qualificati nel settore giovanile. Abbiamo anche atleti di grande talento: Antonio Bellu, campione italiano juniores, e Nicolò Di Turco, un altro tiratore proveniente da Arzachena, che è molto vicino a entrare a far parte della Nazionale. Abbiamo anche una campionessa del mondo juniores nel Trap, Maria Teresa Maccioni, che sta ottenendo risultati straordinari e ci dà molta speranza per il futuro. Non possiamo dimenticare altri atleti come Matteo Marongiu, che ha già fatto ottime gare in Nazionale. Nonostante i numeri limitati, il movimento in Sardegna sta dando frutti importanti e siamo molto apprezzati a livello nazionale e federale. Se io sono il Direttore Tecnico della Nazionale e tutti questi ragazzi e tecnici fanno parte della Federazione, significa che il nostro lavoro e il nostro impegno sono considerati fondamentali per il movimento nazionale”.

Come giudica lo stato di salute dello sport sardo, sia in ambito olimpico che a livello generale, alla luce dei risultati ottenuti negli ultimi anni?
“Credo che lo sport sardo stia vivendo una fase di crescita davvero significativa, poiché stiamo ottenendo risultati che, solo dieci o quindici anni fa, sembravano impensabili. Già da due Olimpiadi consecutive, abbiamo conquistato medaglie olimpiche: a Rio ci siamo andati vicini, a Tokyo le abbiamo vinte e a Parigi abbiamo ottenuto altre vittorie. Abbiamo vinto un oro con Alessia Orro, che è stata incredibile, dominando ogni partita come protagonista indiscussa. Marta Maggetti che ha conquistato un oro storico nell’IQFoil, la nuova categoria olimpica, scrivendo una pagina indimenticabile dello sport. Stefano Oppo, invece, è sempre tra i primi tre o quattro al mondo, e ha vinto due medaglie olimpiche. Stiamo parlando di atleti non solo di alto livello, ma davvero di altissimo livello, che rimarranno nella storia. Anche Nicola Bartolini, nella ginnastica artistica, ha conquistato il titolo di campione del mondo, mentre nel sollevamento pesi siamo davvero fortissimi. Non possiamo dimenticare Fabio Aru, che ha vinto una Vuelta di Spagna e ha indossato la maglia gialla al Tour de France. Nel basket, la Dinamo Sassari ha scritto la storia nel 2015 conquistando il titolo di campione d’Italia, mentre oggi il Cagliari Calcio, nonostante le difficoltà logistiche e un budget limitato, sta compiendo un’impresa straordinaria. Un altro risultato storico è stato l’oro nella staffetta 4×100 metri alle Olimpiadi di Tokyo, con Lorenzo Patta e Filippo Tortu che hanno contribuito in modo determinante a questa straordinaria impresa. Sono davvero fiducioso per il futuro. Le vittorie attirano nuovi appassionati, nuovi bambini che si avvicinano agli sport, e questi bambini diventeranno, un giorno, i futuri campioni. In Sardegna si sogna ancora in grande, nonostante le difficoltà legate alle strutture e alla scarsità di risorse rispetto ad altre regioni d’Italia”.
Se dovesse ringraziare una persona per il supporto ricevuto nella sua carriera, chi sarebbe e perché?
“Sicuramente mio padre Paolo, che è venuto a mancare nel 2009, ha avuto un ruolo fondamentale nella mia carriera. Ha investito tanto su di me, mi ha sempre sostenuto e, purtroppo, non ha potuto vedere il meglio del mio percorso da atleta e, ora, spero, il meglio del mio percorso da allenatore. Tutta la mia famiglia mi è sempre stata vicinissima, perché senza di loro tutto questo non sarebbe stato possibile. Un ringraziamento speciale va anche alla Federazione e a tutti i tecnici che mi hanno accompagnato nel mio percorso, a partire dal mio primo tecnico in Sardegna, Paolo Paoli, fino a tutto il movimento regionale sardo, che mi è sempre stato vicino, offrendomi spunti di confronto e aiutandomi a crescere. Un pensiero va anche ai miei primi allenatori, come Giampiero Malasomma e Francesco Fazi, e a tutti i miei compagni di squadra, tra cui Ennio Falco, Chiara Cainero, Andrea Benelli, Diana Bacosi e tutti gli altri grandi campioni che mi hanno accompagnato e stimolato a migliorarmi continuamente. Non posso non ringraziare il gruppo sportivo dell’Esercito, che mi ha sempre sostenuto in ogni fase della mia carriera, anche nei momenti più difficili, così come le Fiamme Oro, la Marina Militare, le Fiamme Gialle e tutti i gruppi sportivi che contribuiscono al supporto degli atleti. Nonostante non abbia partecipato a due edizioni olimpiche che forse avrei meritato, sono state fatte scelte diverse. Tuttavia, questo ultimo riconoscimento mi ripaga di tutte le delusioni che ho vissuto da atleta, perché comprendo che si tratta di decisioni tecniche volte a valorizzare l’intero movimento sportivo e non il singolo tiratore. Questo nuovo incarico rappresenta per me un’enorme gratificazione e una nuova opportunità per contribuire allo sport in un altro ruolo. Un grazie di cuore al Presidente Rossi, al gruppo sportivo dell’Esercito e al colonnello Minissale, che ha creduto in me sin dall’inizio e mi ha sempre sostenuto. Un ringraziamento speciale anche al mio psicologo, Manolo Cattari, e a mia sorella Valentina, che mi è stata di grande aiuto in ogni momento”.
Matteo Cubadda